Raphael Lemkin fu il primo a coniare il termine “genocidio”, una combinazione della parola greca “genos” (razza o etnia) e di quella latina “cidium” (uccisione). L’epoca in cui vennero pubblicati i suoi studi sul lemma in questione era molto particolare: un anno prima della fine della seconda guerra mondiale, quando nel suo libro “Axis Rule in Occupied Europe”, venne raccontato senza mezzi termini il massacro degli ebrei e di altri gruppi etnici, da parte dei nazisti. Secondo Lemkin non c’erano ancora leggi che potessero in qualche modo stabilire delle pene per chi aveva commesso tali atrocità. Il diritto internazionale presupponeva che la guerra fosse combattuta tra Stati, ma non tra Stati e una parte del loro stesso popolo. Nel caso specifico la Germania, guidata dall’ideologia nazista, stava conducendo una guerra per eliminare le popolazioni civili, tra cui, in primo luogo, quella formata dagli ebrei. Possiamo quindi dire che nella primigenia idea di Lemkin “il genocidio” era una forma di violenza condotta dallo Stato con lo scopo di sterminio nazionale. Da qui sono state poste le basi per una definizione formale del “genocidio”, avvenuta nel 1948 dalla Convenzione delle Nazioni Unite, che fosse utile per prevenirlo e punirlo. La convenzione entrò in vigore nel 1951 e l’articolo II chiarisce che il “genocidio” si riferisce a:
atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso: (a) Uccidere membri del gruppo; (b) Causare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo; (c) Infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita calcolate per portarlo alla distruzione fisica in tutto o in parte; imporre misure volte a prevenire le nascite all’interno del gruppo; trasferire con la forza bambini del gruppo a un altro gruppo.
Nonostante ovvie critiche e discussioni riguardo ai termini, la definizione di “genocidio” nata dalla Convenzione ONU rimane quella più accettata dal mondo accademico e dai tribunali, tra cui la Corte Internazionale di Giustizia, il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda e la Corte Penale Internazionale.
Occorre stabilire subito un punto fermo: i bersagli del genocidio sono i civili e non i militari o i combattenti, questo perché la discriminate da altri atti di guerra o di violenza è quello di voler distruggere un gruppo in tutto e per tutto o almeno in parte. Questo distingue il “genocidio” dalla “pulizia etnica”. L’intento del primo è quello di sterminare un gruppo preso di mira, nel secondo invece la finalità è quella di rimuovere ed espropriare le persone bersaglio.
“Genocidio” però non implica necessariamente lo sterminio totale di un gruppo, i tribunali internazionali a tal proposito parlano di una parte significativa del gruppo da un punto di vista quantitativo o qualitativo. Ci sono quindi due modi per manifestare l’intento genocidio: sterminare un’ampia maggioranza del gruppo preso di mira oppure eliminare un numero limitato di esponenti - leadership, uomini, alte personalità - senza cui la sopravvivenza del gruppo veneree in qualche modo minata. A tale proposito il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia ha sostenuto che la zona geografica in cui viene effettuato il tentativo di eliminare un gruppo può essere di dimensioni limitate.
Resta ora da chiarire il peso del “gruppo” preso di mira: quali dimensioni deve avere affinché la sua mirata eliminazione si possa considerare come “genocidio”? Si devono osservare soltanto grandi numeri, purtroppo forniti dalla storia, oppure si può anche atomizzare la descrizione scendendo nella dimensione di villaggi o piccole cittadine? In tal caso ci si potrebbe trovare di fronte a numerosi esempi di crimini violenti come accaduto nella guerra in Bosnia tra il 1992 e il 1995. In quel caso l’intenzione dei leader politici serbi e dei vertici militari e paramilitari era quella di commettere un genocidio contro la comunità dei musulmani bosniaci. Restringendo però la visuale e considerando tutti i termini necessari per la definizione di “genocidio” i casi di singole città e province devono essere analizzati con attenzione.
La Convenzione del 1948, come afferma Diane F.Orenticher, non ebbe una rapida applicazione. Ci vollero 45 anni prima che venisse istituito il primo tribunale penale internazionale, la cui giurisdizione fu comunque limitata ai crimini commessi nella ex Jugoslavia a partire dal 1991. Ci fu un tribunale analogo in Ruanda, ma data l’entità del massacro, venne adottato un modus operandi duplice: uno internazionale e uno “localizzato” e sui generis che meriterebbe una trattazione a parte (i cosiddetti “gacaca”). Quello africano fu d’altronde un esempio di come si fece di tutto per evitare non solo di usare il termine coniato da Lemkin, ma anche di intervenire per evitare che il tutto accadesse, nell’indifferenza dell’opinione pubblica internazionale, tenuta laboriosamente distante da ciò che accadeva. Per essere più precisi possiamo dire che la stampa raccontò gli episodi più raccapriccianti di violenza, ma non fu possibile far rientrare ognuno di essi all’interno di un disegno che presentasse il piano genocidario di un gruppo.

Un’altra importante precisazione da fare è quella secondo cui un “genocidio” si può compiere sia su un piano puramente fisico e materiale che su un piano intellettuale. Un caso esemplare a tale riguardo è quello della condanna di Jean-Paul Akayesu che fu giudicato colpevole di genocidio e di crimini contro l’umanità per le azioni commesse e ordinate mentre era sindaco della piccola città ruandese di Taba. Fino ad aprile 1994 Akayesu protesse la popolazione Tutsi e impedì alla milizia paramilitare Hutu di operare nel territorio di sua competenza. Poi dopo una riunione con i leader del governo provvisorio qualcosa cambiò. Dal 18 aprile l’ex sindaco protettore dei Tutsi cambiò faccia, indossò abiti militari e scatenò una immane violenza contro i propri concittadini, incitando gli stessi a perpetrare massacri trasformando luoghi fino a pochi giorni prima sicuri in teatri di tortura, stupri e omicidi. Dopo essere fuggito e poi catturato, il tribunale per il Ruanda, dichiarò che lo stupro sistematico delle donne tutsi a Taba invocato da Akayesu era un crimine di “genocidio” poiché aveva lo scopo di “causare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo preso di mira”.
La Convenzione del 1948 ha comunque ristretto l’ampio respiro con cui Lemkin parlava di genocidio, ha escluso la distruzione intenzionale di gruppi politici, movente che - secondo molti giuristi - rischierebbe ancora oggi di far rimanere implicati forse troppi governi internazionali.
Genocidio dell’Anfal

Tra il 1986 e il 1989 Saddam Hussein condusse la campagna dell’Anfal. Il suo obiettivo era quello di reprimere la resistenza curda nel nord dell’Iraq, accusata di collaborare con l’Iran. L’azione militare di Saddam divenne ben presto un’opera di sterminio, deportazione e distruzione del tessuto sociale curdo, ma colpì anche altre minoranze come quelle degli assiri, degli yazidi e dei caldei. Il nome Anfal (bottino di guerra), era quello scelto per indicare, in codice, le operazioni del generale ali Hassan al-Majid, meglio conosciuto come “Ali il chimico”. Le azioni dell’esercito iracheno si basarono su bombardamenti aerei e attacchi via terra, distruzione di oltre 4mila villaggi, deportazioni di massa verso campi di concentramento, esecuzioni sommarie, fosse comuni, torture, stupri, massiccio uso di armi chimiche come iprite e gas nervino.
L’episodio più noto fu l’attacco chimico alla città di Halabja il 16 marzo 1988: in poche ore, circa 5mila civili – tra cui moltissimi bambini – morirono soffocati dai gas, e oltre 10mila rimasero feriti. Le immagini dei corpi senza vita fecero il giro del mondo, ma la reazione internazionale fu estremamente limitata. Le stime delle vittime variano tra 50.000 e 182.000 morti, la maggior parte civili curdi. Migliaia di donne furono stuprate, deportate e vendute come schiave; uomini e ragazzi vennero separati e uccisi, spesso in fosse comuni. L’operazione mirava anche alla cancellazione dell’identità curda attraverso la distruzione di villaggi e la deportazione forzata.
Il genocidio dell’Anfal - sebbene ancora non universalmente riconosciuto - ha lasciato ferite profonde: intere generazioni sono state decimate, la struttura sociale e culturale curda è stata colpita duramente, e ancora oggi molte famiglie non conoscono il destino dei propri cari. Senza alcuna remora possiamo dire che l’Anfal rappresenta un caso emblematico di genocidio moderno, sia per la brutalità dei metodi che per la sistematicità dell’azione, avvenuto ancor prima di Ruanda e Bosnia.
Altri genocidi

- Genocidio degli Yazidi (2014-2017): Lo Stato Islamico (ISIS) ha perpetrato un massacro sistematico contro la minoranza yazida tra Iraq e Siria. Oltre 5.000 yazidi sono stati uccisi, migliaia di donne e bambini rapiti, venduti come schiavi e sottoposti a violenze indicibili. Il genocidio è stato riconosciuto da diverse nazioni, ma la giustizia internazionale è stata lenta e la memoria di questo crimine resta fragile.
- Genocidio degli Herero e dei Nama (1904-1908): In Namibia, durante il dominio coloniale tedesco, vennero uccisi decine di migliaia di Herero e Nama in quello che molti storici considerano il primo genocidio del XX secolo. Solo recentemente la Germania ha iniziato a riconoscere formalmente le proprie responsabilità.
- Genocidio degli Assiri, Caldei e Greci del Ponto (1914-1923): Parallelamente al genocidio armeno, l’Impero Ottomano colpì anche altre minoranze cristiane, causando la morte di centinaia di migliaia di persone. Questi eventi sono stati storicamente meno riconosciuti rispetto al genocidio armeno, ma sono oggi oggetto di crescente attenzione storiografica e politica.
- Holodomor (1932-1933): La carestia forzata in Ucraina, provocata dalle politiche staliniane, causò la morte di milioni di persone. Il riconoscimento come genocidio è ancora oggetto di dibattito internazionale, ma diversi Stati e il Parlamento Europeo lo hanno definito tale.
- Deportazione dei Tatari di Crimea (1944): Oltre 190.000 tatari furono deportati dall’Unione Sovietica verso l’Asia Centrale, con altissimi tassi di mortalità. Solo negli ultimi decenni questa tragedia ha iniziato a essere riconosciuta come un atto di pulizia etnica e, da alcuni, come genocidio.
- Genocidio in Cambogia (1975-1979): Il regime dei Khmer Rossi guidato da Pol Pot sterminò tra 1,7 e 2 milioni di persone, circa un quarto della popolazione cambogiana. Anche in questo caso, il riconoscimento e la giustizia sono arrivati tardi, solo con la creazione di un tribunale speciale decenni dopo i fatti che si è trovato di fatto a giudicare un unicum storico in cui una stessa etnia ha come realizzato un “autogenocidio” in cui i responsabili hanno tentato di eliminare una porzione sostanziale del loro stesso gruppo etnico.
- Genocidio in Darfur (dal 2003): In Sudan, la repressione delle popolazioni non arabe del Darfur ha causato centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati. Il termine genocidio è stato usato dal Segretario di Stato USA nel 2004, ma il riconoscimento internazionale resta controverso e la crisi è ancora in corso.
A Srebrenica tra l’11 luglio e il 19 luglio 1995 furono espulsi circa 25mila bosniaci musulmani e uccisi almeno 7661 ragazzi bosniaci in età militare.