Srebrenica - Il contesto

Srebrenica - Il contesto

Ci sono due date che racchiudono lo svolgersi di una delle tragedie più grandi che l’Europa visse dal termine della Seconda Guerra mondiale: 6-25 luglio 1995. Ma occorre dire di più per caratterizzare meglio il contesto in cui si venne a trovare l’area che in breve divenne teatro di un massacro.

La situazione

Nei primi giorni di luglio 1995, Srebrenica si trovava in una situazione estremamente precaria, frutto di anni di assedio, isolamento e deterioramento delle condizioni umanitarie e di sicurezza. Il versare in condizioni simili è stato determinante per il rapido collasso dell’enclave (territorio non molto esteso che sia completamente circondato da territorio appartenente a uno stato diverso da quello che ha la sovranità su di esso) e la successiva realizzazione del genocidio. Venne dichiarata “safe area” (zona protetta) dall’ONU nel 1993 come risposta diretta alla gravissima crisi umanitaria e militare in corso nella Bosnia orientale (Risoluzione 819 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, 16 aprile 1993). L’esercito serbo-bosniaco, impegnato in una campagna di pulizia etnica, aveva circondato la città e costretto decine di migliaia di profughi bosgnacchi a rifugiarsi nell’enclave, sottoposta a bombardamenti, assedio e privazioni estreme. La misura fu rafforzata dalla Risoluzione 824 (6 maggio 1993), che estese il concetto di zona protetta anche ad altre città assediate della Bosnia. Dal 1992 le forze serbo bosniache avevano circondato Srebrenica con l’obiettivo di annettere il territorio alla Republika Srpska e di “creare una situazione insopportabile di totale insicurezza senza speranza di sopravvivenza” per i bosgnacchi, come disse Radovan Karadžić del marzo 1995.

Una protezione inefficace

Il mandato ONU era ambiguo e le forze dispiegate si dimostrarono subito insufficienti, rendendo la protezione della “safe area” in larga parte inefficace di fronte alla determinazione e superiorità militare serbo-bosniaca. I 600 caschi blu olandesi (Dutchbat) avevano regole di ingaggio molto restrittive, erano peacekeeper che potevano usare la forza solo per autodifesa, avevano un equipaggiamento leggero e sproporzionato rispetto a quello delle forze serbo-bosniache. Le vie di comunicazione tra Srebrenica, Sarajevo e il comando centrale ONU erano difficili e lente, aggravando la situazione in caso di emergenza. Anche la logistica era stata messa in grave difficoltà dall’offensiva serba. Nonostante la loro presenza, le forze ONU non riuscivano a proteggere i convogli umanitari destinati a raggiungere l’enclave che venivano fermati e limitati. Un mese prima del massacro, nel giugno 1995, c’erano diversi casi di malnutrizione e morte per fame tra i civili che all’epoca erano 39mila persone, tra residenti e sfollati. Molti combattenti bosgnacchi abbandonarono l’area nei mesi precedenti lasciando la difesa in mano ai pochi rimasti, che avevano poche armi e praticamente nessun rifornimento. I Caschi Blu olandesi erano ormai meno di 400, diminuiti per via della rotazione, con poco cibo, carburante e medicine.

CaschiBlu

La condizione umanitaria

L’enclave di Srebrenica sperimentava un drammatico sovraffollamento demografico che aveva raggiunto livelli critici all’inizio di luglio 1995. La popolazione pre-guerra di circa 5.000 abitanti era aumentata fino a 35.000-42.000 persone entro il 1995, con alcuni documenti che riportano picchi di 50.000-60.000 persone durante i periodi di massimo afflusso di rifugiati. Medici Senza Frontiere aveva dovuto convertire edifici pubblici per ospitare circa 20.000 persone che cercavano rifugio nella città. Le condizioni di vita erano diventate insostenibili: la popolazione viveva ammassata in spazi inadeguati, con famiglie intere costrette a dormire per terra in fabbriche, scuole e qualsiasi edificio disponibile. L’infrastruttura urbana, già limitata prima della guerra, era completamente inadeguata a sostenere una popolazione dieci volte superiore a quella originaria. Nei primi di luglio le derrate alimentari praticamente non arrivavano più in città, la malnutrizione e la morte per fame furono le prime conseguenze. Era una strategia. Un ex soldato serbo (un “berretto rosso”) descrisse la strategia: “Era quasi un gioco, una caccia tra gatto e topo… Li avevamo circondati e dovevano arrendersi, ma come fai a fare arrendere qualcuno in una guerra del genere? Li affami a morte”. Alcune ricerche successive al massacro hanno riportato che la popolazione iniziò ad adottare strategie di sopravvivenza utilizzando piante selvatiche, semi selvatiche e provenienti dai boschi circostanti. Non vi era più un’autorità che potesse controllare la distribuzione alimentare, c’erano solo bande criminali guidate da comandanti militari corrotti che gestivano il mercato nero che proponeva beni di prima necessità a prezzi proibitivi quando molte famiglie non avevano né soldi né accesso a beni essenziali.

popolazione

A Srebrenica c’era solo una piccola clinica ostetrica in cui lavoravano pochi medici senza esperienza in medicina bellica o chirurgia. Da un anno operavano senza anestesia, erano riusciti a prelevare solo pochi quantitativi di anestetici locali in una clinica dentistica. Medici Senza Frontiere nel 1993 aiutò la cittadina a rimettere in piedi una vecchia stazione di purificazione dell’acqua nella parte alta della città, questo permise di fornire acqua potabile ad alcuni quartieri ma le risorse mediche rimasero insufficienti, i pazienti affollavano l’ospedale e il personale doveva operare 24 ore al giorno instancabilmente.

A preoccupare erano anche le condizioni igieniche, poca acqua potabile, elettricità a singhiozzo e una sovrappopolazione tale da creare un ambiente idoneo per la diffusione di malattie, con la malnutrizione che aveva indebolito le difese immunitarie della gente. Anche il tessuto sociale si era disgregato. Si registrarono casi di prostituzione minorile, traffico di armi, droga, violenza domestica e criminalità organizzata. Come accade in questi casi non si ha più un sistema sociale ma solo una economia di guerra basata sulla sopravvivenza individuale, dove non sono presenti autorità civili ed emergono gerarchie basate sull’accesso a risorse vitali. A Srebrenica la popolazione viveva in uno stato di terrore, non c’erano solo bombardamenti e cecchini, ogni giorno poteva essere quello della capitolazione definitiva e questo, ogni cittadino lo sapeva. Le condizioni psicologiche erano quindi devastanti, privazioni materiali estreme, nessuna fiducia nel presente e nel futuro, l’assedio aveva provocato disturbi psicologici seri nella gente di Srebrenica. Questo fu probabilmente uno degli elementi che rese la popolazione incapace di reagire quando, nei primi di luglio 1995, l’offensiva serbo bosniaca, arrivò alle battute finali. Ma c’è un termine che si può applicare all’enclave che in pochi giorni cesserà di esistere: “campo di morte lenta”, dove lo strato di popolazione civile si trova in una condizione non più umana, ancora prima dell’attacco finale che porta all’irreparabile.

La testimonianza di Medici Senza Frontiere

Come raccontato dagli stessi volontari della ONG internazionale, era quasi impossibile fornire le strutture necessarie all’autosufficienza, soprattutto in seguito al capillare controllo operato dai serbi bosniaci nella zona. MSF cita in un report (Hans Ullens, MSF Field Coordinator in Srebrenica to MSF Paris, 16 September 1993 ): “Non c’è personale locale che possa sostituire il chirurgo, l’ anestesista e lo stomatologo. Nessuno di loro è in grado o ha il potere di procurarsi farmaci dall’esterno. L’ospedale è solo un esempio delle numerose istituzioni sociali e giuridiche che devono essere create (…) non ci sono persone qualificate disponibili e non arriveranno da Sarajevo o da Tuzla, l’idea di un’enclave autosufficiente circondata da una popolazione ostile è una completa illusione.”. Secondo il report: “L’ONU ha dichiarato Srebrenica zona sicura, ma in realtà l’ha venduta ai serbi bosniaci che la stanno lentamente trasformando in un campo di sterminio legale. Sono loro a decidere quali materiali possono entrare, quindi sono loro a gestire tutti i programmi di soccorso. L’ONU e le organizzazioni umanitarie fungono solo da forza lavoro a basso costo per loro. Gestiscono una fattoria con 45.000 persone e un manager serbo interessato solo a sbarazzarsi dei suoi animali”.

MSF

Graziella Godain, coordinatrice sul campo di MSF Francia/Belgio a Srebrenica, ottobre 1993 - aprile 1994, ha raccontato che “la popolazione era tenuta in ostaggio non solo dai serbi, ma anche dai propri estremisti, le milizie bosgnacche”. “Queste ultime - spiega Godain - simboleggiavano una certa resistenza inaccettabile nei confronti dei serbi. C’erano radicali da entrambe le parti. Non c’erano solo bosgnacchi gentili all’interno. Ho trascorso otto mesi con loro e non stavano scherzando. Stavano organizzando operazioni di commando. Si iniettavano morfina prima di salire sulle montagne nel cuore della notte per uccidere i serbi. Bisognava essere davvero fuori di testa per farlo. Si poteva definire autodifesa, ma solo fino a un certo punto. I serbi ne approfittavano per dire: «Avete detto che era una zona smilitarizzata e invece ci sparano addosso». E lo usavano come scusa per sparare sui civili. Questo dava loro automaticamente il diritto a quel tipo di rappresaglia. Ne ho parlato con il comandante bosgnacco. Gli ho detto: “Ogni volta che fate una di queste operazioni, il giorno dopo ci sono sparatorie da tutte le parti e un bambino viene ucciso”.